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sparo solo stronzate

Deconstruction – Devin Townsend Project

Se all’inferno ci fosse il circo, probabilmente ciò che lo descriverebbe nel migliore dei modi sarebbe il sound di questo disco. Folle, pirotecnico, eccentrico, spettacolare, con Devin Townsend come vero ed unico mattatore della serata a presentare ed eseguire i vari numeri.
Eppure ci aveva avvisati: Deconstruction avrebbe racchiuso al suo interno la musica più pesante da lui mai scritta. Ed a ragion veduta devo dirvi che non stava affatto scherzando.
Cosa succederebbe se una delle menti più geniali del metal odierno chiamasse a raccolta una schiera di personalità come Mikael Akerfeldt (Opeth), Ihsahn (ex Emperor), Joe Duplantier (Gojira) e Fredrik Thordenal (Meshuggah), tanto per citarne alcuni, per prendere parte all’ultima sua creazione?
Molto probabilmente verrebbe fuori un album come Deconstruction: una mistura killer di brani spaccaossa da 300bpm, una scarica di energia mista a devastazione, follia e tanta ironia, la stessa ironia a cui ci ha sempre abituato il polistrumentista canadese.

Ma andiamo con ordine.

I fan degli Strapping Young Lad attendendevano al varco il ritorno del vero Hevy Devy, soprattutto dopo la digressione pop-rock progressive di ‘Ki’ ed ‘Addicted’. Gli ultimi dischi pesanti di Devin risalgono infatti al biennio 2006-2007, anni rispettivamente di Alien (SYL) e Ziltoid The Omniscient (solista).
Questa volta gli scettici, coloro che credevano che Townsend avesse abbandonato per sempre la via del metal pesante, avranno pane per i loro affilati denti.

Si aprono le danze con la traccia “Praise The Lowered”, la cui introduzione a base di elettronica sembra essere stata presa di peso direttamente dal non troppo recente Ki. Ma tempo qualche minuto e l’album rivela la sua vera essenza, introducendo pian piano le chitarre distorte in sottofondo, fino a che la caratteristica e graffiante voce di Devin fa da scintilla e ci introduce definitivamente al sound che accompagnerà l’ascoltatore fino alla fine del disco.
Proseguendo con “Stand” è impossibile non tornare con la mente al buon vecchio Ziltoid The Omniscient, le cui sonorità ricordano molto da vicino quelle di Deconstruction, anche se c’è da dire che quest’ultimo svetta sul suo simile in più punti.
Sul lato strumentale, tanto per cominciare, viene abbandonata la drum machine; a fare da protagonista ora c’è una incazzosissima batteria volta ad eseguire il gravoso compito di scandire le complessissime e velocissime basi ritmiche dei lunghi brani della tracklist a suon di doppio pedale, rullante e chi più ne ha più ne metta. Il tutto intrecciandosi con dei riff di chitarra elettrica assolutamente fuori di testa, assoli come se piovessero e taglienti background di tastiere che non fanno rimpiangere i vecchi tempi degli Strapping Young Lad. Come se tutto questo non bastasse, a contornare il tutto si aggiungono di tanto in tanto anche il cantato dei vari special guest dell’album e i cori lirici dell’orchestra filarmonica di Praga che aggiungono un pizzico di epicità in più ai vari brani andando a creare una vera e propria orgia di suoni e voci, un pò caotica di certo, ma dannatamente metodica.
Nel suo piccolo, “Juular” ci da’ un esempio di come amalgamare tanta carne al fuoco alternando musica che oserei definire “da film” a stacchi di death metal estremo, il tutto per accompagnarci al centro della mischia, dove incontriamo “Planet of the Apes”, in vero un tantino monotona; si lascia ascoltare ma il brano non riesce a spiccare particolarmente e con una durata di oltre 10 minuti corre il rischio di venire presto a noia, nonostante l’elevata tecnica musicale presente.
Poco male però, “Sumeria” è dietro l’angolo con un intero coro di voci maschili al suo seguito che si destreggiano tra un riff di qua ed un ruggito di là, in una canzone dove nessuno strumento viene messo in secondo piano. A staccare tutto interviene, verso la fine, un carillon la cui soave melodia assieme a quella di una chitarra acustica chiude la canzone con un coro di Devin in sottofondo, quasi come un monito, come a voler dire “riprendi fiato, il meglio deve ancora venire e ti voglio bello lucido”.
Ed è con questa premessa che si arriva al vero masterpiece del disco, la mastodontica “The Mighty Masturbator”, una traccia da ben 16 minuti nella quale infiniti cambi di tempo, vorticosi arpeggi di chitarra accompagnati da taglienti sottofondi di tastiere e un Devin quasi lirico la fanno da padrone. Non troverete in questa canzone delle parti che si ripetono, tutto viene raccontato sequenzialmente come in un film, nel quale si alternano scene di azione a scene drammatiche, il tutto scandito da una tecnica musicale da altro pianeta. Anche l’elettronica trova posto in questa atipica traccia, come se in essa Townsend volesse gettarvi tutta l’esperienza accumulata fino ad oggi per poi concludere con un inaspettato giro di valzer circense che, accompagnato dagli ormai affermati cori lirici, chiude solennemente uno dei pezzi più alti della sua intera carriera.
Ma lo spettacolo non è ancora finito e “Pandemic”, la traccia più breve del disco, riparte in quarta dove Sumeria aveva interrotto con batteria e chitarre tiratissime e un Devin scatenato, senza però sapersi distinguere a dovere. Forse la traccia meno riuscita dell’album.
Assolutamente fuori di testa invece “Deconstruction”; l’eccentrica title track fa il suo ingresso con un assolo ed un riff iniziale ai limiti dello schizofrenico, caratterizzando così fin da subito la canzone più folle di tutto il disco, merito anche del delirante testo, e che prosegue la sua strada sui binari già tracciati dai precedenti brani. Memorabile la parte orchestrale con coro di voci liriche, ma quando la follia sembra raggiungere il suo picco massimo ecco che ha inizio un letale assolo di chitarra contornato dai epilettici beat elettronici e una vertiginosa scarica di percussioni. Sembra di assistere al caos più totale, dove Devin si mostra totalmente fuori controllo.
Ed infine il colpo di grazia (“Let’s finish this!”). Il disco si chiude in modo tanto caotico quanto brusco con la traccia “Poltergeist” passando in una frazione di secondo dal caos al silenzio più totale, lasciando nell’orecchio (e nel cervello) dell’ascoltatore ancora l’eco ed il ricordo di tutta la devastazione a cui ha assistito inerme per quasi un’ora e un quarto.

Nonostante il sound delle tracce sia sempre lo stesso e ad un primo ascolto le canzoni paiano tutte un pò simili tra loro, si ha sempre costantemente la sensazione che nessun minuto di canzone sia uguale al precedente. Siamo infatti di fronte ad un’opera in cui ogni pezzo ha una struttura completamente atipica rispetto al solito, caratterizzata da parti che non si ripetono quasi mai più di una o due volte, tanto che non si può parlare nemmeno di ritornelli, non ci sono momenti che spiccano sugli altri, ogni sezione è a se stante volta a comporre una vera e propria metal opera.

Siamo di fronte all’album più tecnico dell’intera carriera di Devin Townsend, il che’ già basterebbe a giustificarne l’acquisto. Scordatevi le melodie user-friendly di ‘Ki’ e ‘Addicted’, dimenticate le sonorità della Devin Townsend Band. Piuttosto prendete Ziltoid, imbottitelo di steroidi, dategli qualche chilo di esplosivo ed una mitragliatrice ed otterrete l’essenza di Deconstruction.
Il gemello eterozigote di questo disco, “Ghost”, in uscita lo stesso giorno di Deconstruction, riporterà in primo piano le sonorità semi-ambient tanto care al nostro Devin, per cui qualcuno potrebbe malignamente dire che Deconstruction sia stato un semplice “contentino” per i nostalgici. Non sono d’accordo.
Deconstruction dimostra come Townsend non solo sia ancora in perfetta forma, ma come sia ancora molto legato alle sonorità che l’hanno reso celebre, amato e rispettato da pressochè tutta la scena metal mondiale e non solo. Una personalità musicalmente aperta ed eterogenea alla quale viene concesso di fare tutto quello che vuole (cosa che raramente accade ad un artista senza poi venir giudicato aspramente dai fans, in particolar modo nella scena metal) e alla quale possono venire perdonati i (pochi) passi falsi, perchè ha in fondo questa capacità di saper tirare fuori dal cilindro opere di rara originalità unite a strabilianti doti tecniche, sia vocali che strumentali e senza mai stancare o ripetersi troppo. E in una scena come quella dell’heavy metal, nella quale è facilissimo cadere nel clichè, non è cosa da poco. Anzi.