“Qual è la cosa più…”

Ho passato l’intera vita a temere l’arrivo di questo giorno. Lo ricordo bene. Già dalla scuola materna, quindi alle elementari, durante l’adolescenza e ancor di più in questi ultimi quattro anni: ho sempre temuto il momento in cui avrei dovuto affrontare la perdita di un genitore. Mi chiedevo sempre come avrei reagito, se fossi stato pronto, come sarebbe cambiata la mia vita dopo.
Ho aspettato un po’ per scrivere queste righe, cercando di mettere insieme pensieri, parole, ricordi ed emozioni e di dargli una forma che rappresentasse in maniera almeno un minimo soddisfacente l’enorme affetto e, probabilmente mai abbastanza dimostrato, amore che provo per il mio caro papà.
È difficile descrivere l’immagine di come ti ho sempre dipinto nella mia testa, papà: eri una persona burbera e un po’ testarda ma dal cuore grande, forte ma allo stesso tempo vulnerabile, come se l’andare dei tempi ti travolgesse in maniera differente dalle altre persone e faticassi un po’ a starne al passo. Né ingenuità né innocenza esprimono a dovere quello che vorrei dire ma, in un’accezione più moderata e a metà strada tra le due, rendono l’idea dell’immagine che avevo di te; un’immagine che ha sempre contribuito a sviluppare una sorta di senso di protezione nei tuoi confronti; un’immagine che nel tempo ha rafforzato il legame che avevo con te.
Da ora però sarà tutto diverso.
Mi ritrovo spesso in questi giorni a riguardare foto di nemmeno troppo tempo fa, alcune vecchie solo di qualche settimana e immortalanti una quotidianità ormai scomparsa. Ripensando a quei momenti, ancora così freschi nella mia memoria, mi sembra assurdo ora non poterli più vivere, non poter più scherzare con te, parlarti, raccontarti le novità, come va al lavoro, quali film vorrei vedessimo insieme oppure le volte in cui ricevevo una tua chiamata perché dovevi chiedermi qualche consiglio tecnico su chissà quale problema informatico o per sapere cosa io avessi da fare quella sera. Nell’ultimo periodo, quando mi chiamavi avvertivo chiaramente il bisogno di compagnia nella tua voce, compagnia che ho sempre cercato di non negarti nelle centinaia di serate passate a cena insieme, magari improvvisate all’ultimo e alle quali mi dispiaceva un sacco rinunciare se per qualche motivo mi ero già organizzato diversamente; magari dopo cena avremmo visto un film assieme, di quelli che piacevano a te. Guardando quei film oggi non posso fare a meno di chiedermi cosa ne avresti pensato tu, se a modo tuo avresti apprezzato o se al tuo solito l’avresti liquidato con poche parole (“‘sto film è una mezza stronzata.” -cit).
Questa ed infinite altre cose potevo farle con facilità fino a pochissimo tempo fa; allora erano la norma e le davo quasi per scontate e da ora e per sempre, invece, saranno semplicemente impossibili. È qui che vengo assalito da un senso di smarrimento e di vuoto. Ricordo i momenti in cui ti sapevo in giro da qualche parte a fare i tuoi soliti interventi di lavoro, che se avessi avuto bisogno, per quanto lontano fossi in quel momento, ti potevo sentire semplicemente alzando un telefono e potevo raggiungerti percorrendo un paio di chilometri e realizzo subito dopo che ora, semplicemente, tu non sei più da nessuna parte, se non in quello che sono io ora.
Pensando a quello che è rimasto di una vita trascorsa assieme non riesco a quantificare il numero di cose che mi hai insegnato. Mi rendo conto solo ora che penso a te ogni giorno in ogni azione quotidiana quanto di quegli insegnamenti sia profondamente radicato nelle mie abitudini, in come reagisco e mi approccio a determinate situazioni, ritrovandomi spessissimo a pensare: “così è come facevi tu”, “questo è quello che mi hai sempre detto di fare”. È in tutte queste cose che io ti sento ancora vicino, vivi al mio fianco ancora oggi per tutto quello che mi hai trasmesso e per questo non posso che provare un grande senso di fierezza.
Ecco, se dovessi riassumere tutto in una parola sarebbe ‘orgoglio’: per come hai lottato ed affrontato la malattia; per come sei stato sempre presente in tutte le scelte e le difficoltà della famiglia e per come accorrevi a dare supporto a chiunque ne avesse bisogno, nonostante tutte le avversità e le difficoltà che la malattia ti ha portato, col tuo leggendario caratteraccio che malcelava bontà d’animo e che non precludeva mai quella tua ironia che saltava fuori dal nulla e che sorprendeva sempre tutti.
Io dal canto mio spero con tutto il cuore di averti reso altrettanto orgoglioso e fiero di avermi come figlio.
Ho ancora scolpita nella mente la mattina in cui, pochi giorni prima di lasciarci, con la lucidità che iniziava a venire meno, mi hai telefonato e mi hai posto quella domanda inerente un non meglio specificato film, una domanda a metà, per la quale non riuscivi a trovare le parole giuste per terminarla e su cui probabilmente mi interrogherò per sempre.
Mi hai chiesto: “qual è la cosa più…”
Non riesco a pensare a questo aneddoto senza avvertire un senso di ineluttabile incompletezza che però forse è intrinseca negli interrogativi che ci poniamo sulla vita e sulla morte stesse. Interrogativi che, esattamente come il tuo, sono incompleti, senza risposta e impossibili da interpretare.
Mi piace pensare che questo possa essere stato il tuo ultimo insegnamento.
Addio, vecchio mio.
Mi mancherai tanto.
